La tela rappresenta la scena biblica tratta dal libro della Genesi (19 30-38), nella quale Lot rifugiatosi, dopo la distruzione della città di Sodoma, in una caverna con le due figlie, viene dalle stesse ubriacato, al fine di poter concepire con lui inconsapevole, non essendovi nessun altro uomo in quella regione con cui unirsi. L’episodio è qui essenzialmente concentrato sui tre personaggi protagonisti, con Lot, in primo piano, ritratto seduto, il corpo semiscoperto, nell’atto di bere da una scodella offertagli da una delle figlie, mentre l’altra alle spalle tiene una brocca.
I dati stilistici qualificano il dipinto, sicuramente proveniente da una collezione privata, non identificata, come prova di Giovanni Antonio de Groot, nato nel 1664 ad Arona (Lago Maggiore), località di residenza in quell’anno del padre Riccardo, pittore paesista di origini olandesi, coniugato con una aronese e al servizio dei Borromeo dell’Isola Bella, per i quali aveva realizzato diversi quadri. La formazione dell’artista, le cui opere note sopravvivono tra Lago d’Orta e Valsesia, dove il nostro si sarebbe poi trasferito definitivamente, si era svolta in prima battuta a Milano, accanto ad Antonio Busca e al Tempesta, la cui conoscenza, ora documentata anche per questioni private, poteva essere stata di avviamento al genere paesistico. La sua educazione artistica conobbe una fase particolarmente significativa con il trasferimento a Roma, attestato nel 1688 (Dell’Omo, in Capolavori del barocco, 2015, p.114; Monferrini, in corso di stampa), per altro già accennato da Lazaro Agostino Cotta, autore di alcune note biografiche a lui pertinenti (Dell’Omo 1997). Era proprio il Cotta a fornire la notizia di un suo alunnato presso Carlo Maratti nella capitale, al momento non documentato, seppure è altamente probabile un transito presso la bottega del celebre maestro, come si evince dalle non poche suggestioni ricavate dalla sua cultura figurativa. Ne sono emblematica prova i due ovali con Adorazione dei pastori e Adorazione dei Magi della cappella Turcotti della basilica di San Gaudenzio a Varallo (L’Adorazione dei Magi è replicata con varianti in uno dei tondi della cappella del Rosario della stessa chiesa e in un suo disegno nella locale Pinacoteca; Caldera –Dell’Omo 2005; Grupallo 2007), ove i rimandi vanno ad alcune opere giovanili del Maratti – La fuga in Egitto di Sant’Isidoro e la Natività di San Giuseppe ai falegnami – in particolare, dalla prima nelle figure di Gesù e di Giuseppe e nell’affettuosa e tacita conversazione tra la Madre e il figlio dormiente.
Anche L’imposizione del nome del Battista per la chiesa di San Giovanni Battista ad Ameno (Lago d’Orta) riprende in modo eclatante la Natività dell’artista marchigiano in Santa Chiara a Nocera Umbra, specificatamente nella figura di Zaccaria qui ritratta in controparte rispetto al modello. Non conosciamo la durata del soggiorno romano del De Groot, già mediato dall’intervento di Vitaliano Borromeo, su probabile richiesta del padre che, come detto, doveva essere ampiamente noto al mecenate milanese. Le date seguenti del percorso del nostro artista toccavano l’Olanda (1694ca- 1698), con il fine di occuparsi dell’eredità paterna ma anche di lavorare nel Palazzo Reale di Amsterdam: seppure per un breve periodo, tale attività gli consentiva un suggestivo incontro con la pittura nordica, fiamminga e olandese nello specifico, che avrebbe personalizzato ulteriormente il suo stile.
Il rientro a Milano, di cui rimane testimonianza nella sua registrazione tra gli iscritti all’Accademia di San Luca agli esordi del Settecento, sembra comunque non aver lasciato traccia di opere in loco, neppure di quelle segnalate dal Cotta in luoghi attigui alla città e a Bergamo. Il successivo trasferimento a Varallo con una proficua attività estesa ad altre località della Valsesia accoglieva un pittore le cui impronte romane si erano affinate con quelle nordiche e aggiornate in ultimo alla pittura milanese coeva. Da quest’ultima in particolare e da pittori come Stefano Maria Legnani de Groot maturava un decisivo schiarimento della tavolozza, particolarmente evidente nelle poche testimonianze di pittura murale da lui realizzate. Ma anche Filippo Abbiati, regista di grandi storie sacre, diventava un punto di riferimento per la realizzazioni di simili apparati, le cui prove più importanti sono nella basilica varallese (Dell’Omo 2003).
A fronte di questo discorso rimane un gruppo di prove grafiche provenienti dall’eredità Alberganti, attualmente presso la Pinacoteca di Varallo, con studi di nudi, talora libere elaborazioni da soggetti michelangioleschi e raffaelleschi: il carattere accademico, insito in questa tipologia di opere, è qui superato dalla carica creativa ed inventiva messa in atto che li trasforma in manufatti di grande modernità e rivela il personalissimo linguaggio dell’artefice. La ricerca del pittore si concentra in modo particolare sul corpo umano e sulla sua anatomia, mentre i volti sono caricati in modo quasi espressionistico.
Esercitazioni non preparatorie per altre opere, potevano forse, in parte, essere state realizzate nel corso del soggiorno romano, che fu principalmente di studio e di perfezionamento del suo linguaggio (Dell’Omo 1997; Stefani Perrone, 1997; Dell’Omo, in Arti figurative in Valsesia, pp. 88-91).
Sono proprio i riscontri con questa produzione grafica che permettono di assegnare in modo inconfutabile il dipinto in esame al De Groot, particolarmente nella sua attenzione alla ricerca anatomica, evidente, tra i personaggi ivi raffigurati, nella figura di Lot. Anche le tipologie dei visi che ripropongono costantemente nel tempo gli stessi modelli, diventano un ulteriore elemento a favore del pittore.
Lo stretto legame con i disegni citati ci porta poi a datarlo dopo il rientro dal viaggio romano e olandese, nell’ultimo decennio del Seicento. Una datazione questa che si addice anche ai due citati ovali della cappella Turcotti, forse non progettati per la stessa, stante i soggetti non attinenti con la sua titolazione a San Gregorio, a cui invece risponde la tela di Paolo Cazzaniga, datata 1715, sull’altare. Suggestivo pensare che i due dipinti fossero stati donati dai patroni del sacello e provenienti dalla personale collezione della loro famiglia, considerando che le relazioni del pittore con la Valsesia si datavano precedentemente al suo trasferimento definitivo. Nel nostro dipinto, tuttavia, l’attenzione dell’artista investe anche la materia cromatica, schiarita come nel manto rosato di una delle due figlie di Lot, che negli incarnati a vista è illuminata da una luce quasi fredda: era questo un segnale di quel vento nuovo della cultura barocchetta lombarda che il De Groot avrebbe interpretato con modalità del tutto personali.