In skating over thin ice, our safety is in our speed» (pattinando sopra ghiaccio sottile, la nostra salvezza sta nella nostra velocità), scriveva (appropriatamente) in Prudence Ralph Waldo Emerson (1841). E quello di Bruxelles (che ha ospitato Paris Tableau, transfuga da Parigi), immodestamente noto anche come «Royal Skating» – prima di essere convertito nel Garage Bugatti, poi nel deposito della Fabrique nationale d’armes de guerre de Herstal, per tornare quindi parcheggio d’auto (anche se una serra sarebbe oggi la sua destinazione ideale, magari di ortaggi green) – in origine era proprio un patinoire, ovvero una pista di pattinaggio.
Quale sarebbe, allora, la velocità necessaria per evitare di colare a picco? Pare che la domanda non sia stata posta. L’ovattata comfort zone che ci accoglie, la rassicurante medietas (priva del tutto di sussurri e grida), l’onesto boulot offerto a onesti collezionisti (fauna protetta), ingannano il tempo in cui viviamo. Eppure, persino Tiziano e Rubens sono tornati di moda, se una grande griffe di moda usa parti dei loro quadri come decoro per borsette (su suggerimento di Jeff Koons, guarda caso), e in giro si moltiplicano gli sguardi contemporanei al passato (le mostre di Bill Viola a Firenze e quella di Vik Muniz a Venezia, per dirne solo un paio). Perché, allora, non cogliere quei segnali e tentare la strada di una nuova narrazione del nostro mondo antico?
D’altronde, La patinoire Royale nasceva per evoluzioni su pattini a rotelle. Niente ghiaccio sottile, quindi, che avrebbe costretto i ventuno espositori a spericolate eppure necessarie accelerazioni.